Il vitigno Casavecchia ha origini poco conosciute. Sicuramente è un autoctono campano, diffuso soprattutto in provincia di Caserta. Una leggenda tramandata tra i contadini ne […]
Le Origini
Il profilo maestoso del Vesuvio che domina il Golfo di Napoli e Positano e Amalfi incastonati nella roccia come camei, i siti archeologici che raccontano una civiltà millenaria e il profumo dei limoni, fanno da sfondo a una regione affascinante, nella quale meravigliose espressioni naturalistiche e culturali si intrecciano con radicati e antichi costumi.
A partire dall’VIII secolo a.C. i Greci si insediarono in questo territorio, introdussero molte varietà oggi ritenute autoctone, tra le quali l’aglianico e l’influsso della loro cultura enologica preparò le basi per la produzione di alcune eccellenze che si sarebbero affermate in epoca romana. Dopo la profonda crisi dell’agricoltura in epoca medievale, di vino campano si torna a parlare nel XVI secolo, quando Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III, magnifica il Greco di Somma, di Ischia e quello di Posillipo, il Coda di Volpe di Nola e tanti altri.
Nel XIX secolo le devastazioni causate dalla fillossera determinarono una inesorabile trasformazione agricola, con la diffusione della coltivazione del tabacco, che porterà la regione ai primi posti della produzione nazionale. L’intensa emigrazione fece nascere numerose comunità campane in tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti, le quali favorirono la popolarità di vini come il Lacryma Christi. Greco, fiano e aglianico furono un po’ dimenticati nelle proprie zone e, successivamente, minacciati anche dall’affermazione di uve più produttive e meno rappresentative del territorio, come sangiovese e barbera, oltre che di vitigni internazionali quali merlot, chardonnay e cabernet franc.
Solo verso la fine degli anni ’70 si ha un cambio di tendenza, in poco tempo l’attenzione si concentra sulle uve autoctone e dalla metà degli anni ’80 torna alla ribalta il concetto di territorio. Nuovi imprenditori investono in viticoltura e si recupera la maggior parte delle uve locali, per giungere, qualche anno più tardi, all’affermazione di vini come il Fiano d’Avellino, il Greco di Tufo, il Taurasi e l’Aglianico del Taburno.
Oggi, accanto a questi grossi calibri, si vanno sempre più affermando vini ottenuti da uve considerate gregarie e ora vinificate in purezza, come piedirosso, coda di volpe, pallagrello, caprettone e catalanesca, che danno vini più semplici e immediati. Infine, sono in aumento le produzioni di spumanti e di passiti, che non hanno mai fatto parte della tradizione enologica locale ma che stanno raggiungendo interessanti livelli qualitativi.
In tutto il mondo il simbolo gastronomico di Napoli e della Campania è la pizza, spesso proposta in abbinamento con la birra, ma è molto piacevole anche con uno spumante rosato del Sannio a base di aglianico. Questo vino si sposa perfettamente anche con i deliziosi spaghetti al pomodorino del Vesuvio, che contende lo scettro all’altrettanto famoso pomodoro San Marzano ed è celebre per il piènnolo, tecnica di conservazione per la quale i pomodorini sono legati in grappoli appesi e fatti seccare.
L’orata alla Positano con erbe aromatiche, capperi e pane raffermo, e gli spaghetti con la colatura di alici di Cetara, rivisitazione del famoso garum degli antichi Romani, sono perfetti con un robusto Costa d’Amalfi Furore Bianco, mentre la minestra maritata, preparata soprattutto con carni di maiale, di manzo e di gallina, e fino a sette verdure differenti, si abbina bene con un Fiano di Avellino.
Nell’interno della regione le carni diventano l’ingrediente principale e lo spezzatino di agnello è perfetto con un Aglianico del Taburno, i prelibati mugliatielli, involtini di interiora di pecora, con un Taurasi, il maialino nero casertano al forno con un potente Pallagrello nero della zona e la salsiccia con i friarielli, le infiorescenze non ancora sbocciate delle rape, amatissima dai partenopei, con un morbido Falerno del Massico ottenuto da primitivo.
La dolcissima chiusura del pasto con la deliziosa pastiera napoletana, le sfogliatelle e le zeppole, è accompagnata dall’interessante e recente Moscato di Baselice della zona di Benevento, o con un più classico Sant’Agata dei Goti Passito.
Il clima ed il territorio
Il territorio campano è prevalentemente collinare (50.8%) e montuoso (34.6%), mentre la zona pianeggiante si distribuisce soprattutto nelle province di Napoli, Caserta e Salerno.
Il clima si presenta mite, asciutto e ventilato nella zona costiera, mentre in quella appenninica è continentale, con inverni molto più rigidi e decise escursioni termiche tra giorno e notte, anche in piena estate, che determinano la qualità dei migliori vini bianchi irpini.
Per i terreni il discorso è molto più complesso.
Verso il mare, l’intensa attività vulcanica ha determinato la formazione di terreni di natura magmatica, che variano dalle sabbie dei Campi Flegrei, dove gli impianti sono tutti a piede franco, al tufo verde di Ischia o alle lave del Vesuvio; questi terreni scuri e friabili sono ricchi di potassio, che favorisce la formazione di zuccheri nella fase di maturazione dei frutti e caratterizzano l’unicità dei già citati pomodorini e delle crisommole, le tipiche albicocche vesuviane.
Verso la dorsale appenninica, nella parte orientale della regione, i terreni sono sciolti e ricchi di calcare, con marne e argille in superficie.
L’unicità dei terreni campani è legata soprattutto alle eruzioni del Vesuvio, che hanno prodotto e sparso grosse quantità di ceneri anche a lunghe distanze e coperto con una spessa coltre anche suoli di matrice calcarea, rendendoli ricchissimi di minerali; in questi, l’aglianico trova il suo habitat migliore ed esprime vini di grande struttura e complessità.
Zone vitivinicole
Da Capua ai Campi Flegrei la Campania Felix era nota per la fertilità delle terre, per la varietà e la qualità dei prodotti. Falerno, Cecubo e Caleno erano perle enologiche dell’Impero Romano, citate anche da Plinio il Vecchio.
In Campania si possono distinguere cinque macrozone: il Casertano, l’area di Napoli e le splendide isole di Capri e Ischia, l’Irpinia, il Beneventano, in termini di produzione il bacino vitivinicolo più importante della regione, e infine il Cilento, ormai ai confini con la Calabria.
Appena oltre il confine laziale, la provincia di Caserta è nota per la denominazione Aversa Asprinio, vino delicato e fresco per antonomasia, ma soprattutto per il Falerno del Massico DOC, prodotto in una piccola fascia costiera compresa tra Mondragone e Sessa Aurunca, dove si coltivano soprattutto aglianico, primitivo e falanghina. Il Rosso è prodotto in prevalenza da aglianico o da primitivo, che portano a vini più austeri nel primo caso, più morbidi nel secondo. Nell’ultimo decennio, anche per l’impegno di alcuni ottimi produttori, sta crescendo l’interesse per l’Alto Casertano, nei dintorni di Caiazzo, grazie alle perle casavecchia e pallagrello, quest’ultimo a bacca bianca e nera; dalle uve a bacca nera si ottengono vini rossi e rosati complessi e riconoscibili per struttura e potenza.
Il Pallagrello Bianco è invece molto apprezzato per le gradevoli note agrumate, per la buona struttura e l’avvolgente morbidezza, perfetto in abbinamento con polpo e patate al forno.
Nell’ area di Napoli coesistono realtà vitivinicole molto differenti. Nelle sabbie silicee della denominazione Campi Flegrei si coltivano esclusivamente falanghina e piediross0, dai quali si ottengono vini di struttura moderata ma freschi e profumati. Nelle vigne caicaree di Capri, la Falanghina è dotata di media struttura ed è perfetta con delicati spagnetti al sugo di telline, mentre sulle pendici del Vesuvio e a Ischia, il Piedirosso è più ricco e complesso, adatto per accompagnare involtini di carne alla salvia. II Rosso della sodenominazione Lacryma Christi del Vesuvio è il frutto dell’uvaggio tra aglianico e piedirosso ed esprime una decisa nota alcolica, oltre che sentori di viola e ciliegia. Il nome è piuttosto curioso e sembra derivare dalla leggenda secondo la quale le lacrime sarebbero di Gesù, versate dopo aver riconosciuto nel Golfo di Napoli un pezzo di Paradiso strappato da Lucifero durante la caduta verso gli inferi: da tali lacrime si sarebbero generate le vigne di questo territorio.
La zona più interessante per la viticoltura campana è la lussureggiante Irpinia, in provincia di Avellino, che esprime le tre eccellenze Fiano d’Avellino, Greco di Tufo e Taurasi.
Il Fiano di Avellino DOCG è un vino che in gioventù libera note di pera e di nocciola, ma dopo evoluzione libera splendidi accenti minerali, che si rispecchiano in una decisa sapidità. Dotato di buona struttura, chiude con un finale morbido e persistente, ed è perfetto con un risotto alle verdure e cipolla ramata di Montoro. Un po’ più immediato, il Greco di Tufo DOCG è prodotto nel cuore dell’Irpinia dove si trovano miniere di zolfo e cave di tufo, e propone sentori agrumati e un assaggio un po’ più delicato, con finale sapido. Il Taurasi DOCG è il vino di punta tra i rossi campani, che accompagna le lunghe notti invernali e riscalda il cuore. In questo vino, l’aglianico esprime tutto il suo vigore e dopo un’evoluzione che nelle migliori espressioni può protrarsi oltre i venti anni, si caratterizza per un profumo ricco di sfumature di tabacco, cuoio e spezie dolci; l’assaggio, sempre potente, svela toni più pacati perché il tannino si è lentamente levigato. Un vino da provare con cinghiale speziato. E singolare, in questa provincia, che l’alta qualità dei vini prodotti venga espressa sia dalle aziende storiche, artefici dell’affermazione dei vini campani moderne, che si sono affermate solo nell’ultimo ventennio, ma nel mondo, sia da altre che allo stesso modo hanno saputo interpretare e valorizzare territorio e tradizione.
Negli ultimi decenni il gap qualitativo tra la provincia di Avellino e le altre si sta riducendo. Benevento, per esempio, che produce circa la metà del vino dell’intera regione, sta subendo una significativa trasformazione, attestata dall’elevata qualità dell’Aglianico del Taburno DOCG, ricco di tannicità e struttura e perfetto con la pecora laticauda. L’estesa denominazione Sannio esprime soprattutto vini da falanghina e aglianico, con una qualità media in continua crescita. Qui è presente anche lo sciascinoso, vitigno che dà vini intensi e profumati di prugna e mirtillo, da consumare in gioventù, mentre nella denominazione Sant’Agata dei Goti, si produce anche un Passito di buona eleganza, con accenti di agrumi canditi, albicocche secche e spezie dolci.
Tornando sulla fascia costiera, nella estesa provincia di Salerno, la denominazione Costa d’Amalfi comprende sottozone molto interessanti, come Furore e Tramonti.
Otre agli onnipresenti piedirosso e falanghina, su terrazzamenti strappati alla roccia crescono le magnifiche viti secolari di varietà uniche come il tintore, oppure le bacche bianche della pepella, del fenile, del ripoli e della biancozita, che costituiscono un microsistema spettacolare che dà vini di straordinaria potenza ed eleganza. In particolare, i vini bianchi di questa denominazione sono sempre più apprezzati e, grazie alla loro mineralità e struttura, si possono abbinare a capesante gratinate.
Infine, sempre in provincia di Salerno, si incontra la denominazione più meridionale della Campania, Cilento, che comprende un areale vitivinicolo vastissimo e variegato, composto dai consueti aglianico e fiano, oltre a merlot e cabernet sauvignon, barbera, sangiovese, trebbiano e primitivo, una volta diffusi nell’intera regione.
I Fiano del Cilento sono più immediati di quelli irpini, profumati, freschi e piacevoli e accompagnano bene la mozzarella di bufala campana. Nei vini rossi di questa denominazione, l’aglianico è spesso assemblato con altre uve a bacca nera, per dare vini strutturati da abbinare alle tradizionali ciambotta e ciaurella, varianti di una stessa preparazione a base di prodotti dell’orto.
Vitigni
Il vigneto campano si estende per 24.190 ettari, distribuiti per quasi l’80% in collina, che hanno portato, nel 2013, a una produzione di circa 1.644.000 ettolitri di vino, rosso per il 60%. Ma la Campania, purtroppo, riesce con difficoltà a spostare il proprio potenziale produttivo verso i vini a denominazione, che si discostano lentamente dalla soglia del 38.4% del totale, mentre gli IGP rappresentano il 22.4%.
I sistemi di allevamento della vite più diffusi sono il guyot e il cordone speronato, anche se resistono forme più antiche come la pergola e l’alberello. Nella zona di Aversa, per l’asprinio resiste l’antica alberata aversana, introdotta dagli Etruschi, nella quale le viti si arrampicano su filari posti tra due pioppi, con grappoli che in questo modo possono trovarsi fino a 15 metri di altezza.
La particolare conformazione del suolo è probabilmente uno dei motivi della eccezionale varietà ampelografica, con oltre 100 vitigni autoctoni riconosciuti, soprattutto a bacca bianca, che danno una produzione estremamente frammentata.
Il vitigno a bacca nera più diffuso è l’aglianico (30.6%), il cui nome sembra derivare dalla città di Elea oppure quale corruzione del termine ellenico. Vitigno a maturazione tardiva, che in Irpinia non si raccoglie mai prima della festività di Ognissanti, ha nella potenza e nella tannicità le sue migliori prerogative, anche se le sue espressioni possono essere diverse secondo l’ambiente pedoclimatico. Il colore dei vini vira dal rubino verso il granato, soprattutto dopo la necessaria evoluzione in barrique o in botte grande, che ne attenua le asprezze giovanili. Il profumo è inizialmente disposto su note fruttate e di viole appassite, e si arricchisce di sentori speziati e tostati, che possono variare dal tabacco alla cannella, dal cuoio alla terra bagnata, per una complessità con pochi eguali nel panorama enologico internazionale.
Chiamato localmente per’e palummo o piede di colombo, per il colore rossastro della parte alta del raspo a piena maturazione, il piedirosso (3.1%) è un’uva difficile perché spesso favorisce un grande sviluppo del fogliame a scapito della produzione in grappoli. Inadatto ai climi freddi, predilige le sabbie calde vicine alla costa e, non a caso è l’uva più diffusa nella provincia di Napoli. Il vino esprime profumi di frutti a bacca rossa, in particolare di ciliegia, un corpo contenuto e un tannino piuttosto delicato.
Altri vitigni autoctoni a bacca nera meno diffusi sono il pallagrello nero, il casavecchia, lo sciascinoso, la guarnaccia e il tintore, che esprimono vini di struttura o che rappresentano ottimi complementari per quelli ottenuti dalle uve più coltivate. Soprattutto l’ultimo, presente quasi esclusivamente nella zona di Tramonti, è storicamente utilizzato per rendere più intenso il colore del vino, come si evince chiaramente dal nome.
Il sangiovese, il cabernet sauvignon e il merlot sono presenti in piccole sacche distribuite un po’ ovunque, ma concentrate soprattutto nella provincia di Salerno.
I vitigni a bacca bianca sono molto numerosi, anche se spiccano la falanghina, il fiano e il greco. Il primo è diffuso in tutta la regione, gli altri due in aree ampie, ma sono in grado di esprimersi su livelli di eccellenza rispettivamente nei dintorni dei comuni di Lapio e Tufo.
La falanghina (12.8%) è un nome associato a due vitigni diversi. La falanghina dei Campi Flegrei dà vini delicati e fragranti, con sentori di fiori bianchi e frutta esotica, corpo contenuto e da bere in gioventù, mentre quella del Sannio offre vini molto più strutturati e complessi, che possono evolvere, tra legno e acciaio, anche fino a dieci anni.
Il greco (4.5%) matura in ottobre e dà in genere vini che riposano in acciaio, da gustare in gioventù, quando esprimono sentori di susina e fiori bianchi, come il biancospino e in particolare il gelsomino, e una spiccata mineralità, anche se esprime la sua potenza soprattutto al gusto, offrendo un assaggio fresco, di gradevole sapidità e struttura.
Vitigno meno semplice, il fiano (4.1%) matura verso la fine di settembre, quando i suoi grappoli permettono l’elaborazione di vini molto interessanti, che nei primi mesi liberano sentori di tiglio, ginestra, pera, nocciola e mandorla, e che al gusto si presentano freschi e dotati di buon corpo. Le migliori espressioni sono tuttavia destinate a evoluzione, sia in barrique sia in bottiglia, e danno vini in grado di offrire una straordinaria complessità olfattiva.
Grazie alle sue doti di struttura, il coda di volpe (2.5%) è spesso utilizzato in uvaggio con la falanghina, anche se negli ultimi tempi è frequentemente vinificato in purezza, con eccellenti risultati soprattutto nella provincia di Benevento. Il vino svolge profumi di fiori e frutta a polpa gialla, come la pesca, ma si distingue soprattutto per il corpo e la chiusura morbida.
L’asprinio non è particolarmente diffuso (0.6%) ma è un vitigno antichissimo, il cui nome dice tutto sulla sua principale caratteristica, la grande acidità, accompagnata da piacevoli note di fiori e frutta a polpa bianca. Questa dote innata lo rende molto adatto alla spumantizzazione, inizialmente secondo il metodo Martinotti, ma di recente anche il metodo classico sta dando ottimi risultati.
Il pallagrello bianco (0.4%) è spesso impiegato in uvaggio con la falanghina, e dà vini morbidi e dotati di buon corpo, ma con un profumo più intenso e complesso, con spiccate note di agrumi e frutta esotica.
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